Herbàrie, segnòni e giustòssi: guaritori di campagna tra diavolo e acqua santa

Herbàrie, segnòni e giustòssi: guaritori di campagna tra diavolo e acqua santa

Un bagaglio culturale ormai scomparso: la figura dei guaritori di campagna e l'utilizzo delle piante medicinali.

L'autrice del libro "La Herbaria" illustra l'origine e le caratteristiche di questa misteriosa figura, così diffusa nel passato rurale del nostro territorio e oggi dimenticata.

Guaritori si nasce o si diventa?

La figura del guaritore di campagna, definita in modi molto vari a seconda del territorio di pertinenza e molto diffusa in ogni epoca sull'intero territorio nazionale, è perdurata fra alterne vicende storiche essendo spesso l'unico punto di riferimento per la gente dei borghi lontani da centri dotati di un medico, di un ospedale o, in tempi più antichi e difficili, da un convento dotato di infermeria.

Questa figura mostra caratteristiche comuni e costanti nel tempo e nello spazio.

Innanzitutto la “formazione”. Guaritori si nasce, è un destino che si desume dalle circostanze legate alla nascita: ad esempio chi nasceva il giorno di Natale, con parto podalico, “con la camicia”, ossia con la sacca amniotica, o ancora chi nasceva ultimo di sette fratelli, o prematuro (in sette mesi, ad esempio); oppure è un destino legato alla consanguineità con un altro guaritore presente in famiglia.

Il compito di curare era trasmesso al prescelto in determinati momenti: nella notte di Natale, sul letto di morte dal vecchio guaritore al nuovo, oppure come un vero e proprio incarico nel giorno del Battesimo, naturalmente secondo una precisa ritualistica. Chi riceveva tale incarico era tenuto a condividerlo sempre, non rifiutando mai il proprio aiuto a nessuno e mai dietro pagamento di somme di denaro, in quanto “un dono si dona”.

Costante è anche la ritualistica della cura. Può essere l'utilizzo della fede nuziale per segnare le storte, o di un altro oggetto prezioso, in oro o in argento, dal valore sacro, che suggeriscono forse l'idea che l'amore sia sempre e comunque cura vincente su ogni forma di male.

Spesso ci sono dei “fili”: lo spago per “legare” le slogature e le distorsioni, oppure ago e filo per cucire l'orzaiolo, fili che comunque rimandano alla metafora secondo cui il male si può legare, circoscrivere e dunque bloccare; oppure i famigerati “pegnatìni”, pentolini il cui utilizzo misterioso ma sapiente da parte del guaritore permetteva la cura a distanza. E, sempre, le preghiere: invocazioni, esorcismi o scongiuri, tra il latino e il dialetto, imparati chissà quanto tempo fa o forse “rubati” alle parole da messa, in tempi in cui l'analfabetismo era la regola e le parole in latino, incomprensibili, erano permeate di mistero e forza magica.

Per un vero guaritore, inoltre, rimane fondamentale la conoscenza del mondo della natura e dei suoi ritmi. Dovendo destreggiarsi tra le difficoltà dell'aspra vita in campagna, dove gli altri animali sono tanto importanti quanto l'uomo, chi guarisce deve saper individuare la causa e la cura della malattia di una mucca, saper assistere alla nascita di un vitello quanto a quella di un bambino, entrambi ugualmente preziosi alla sopravvivenza, deve poter tutelare un raccolto e, di conseguenza, prevedere il tempo atmosferico e possibilmente gestirlo; non di rado le sue conoscenze sfociano nella magia tempestaria, perchè è evidente agli abitanti dell'intero borgo che chi sa placare una tempesta di grandine è sicuramente anche in grado di evocarla...

Tra il sacro e il profano

Il guaritore vive dunque sempre in stretto contatto con il mondo naturale e selvaggio e con i suoi ritmi. Sono conoscenze empiriche, ma che denotano una grande capacità di osservazione e di dialogo, inteso a più livelli, inteso come capacità di stare in relazione empatica, nonostante l'apparente isolamento di queste magiche figure di guaritori. Chi cura deve saper ascoltare: in primis il proprio intuito nel comprendere il problema di chi si rivolge a lui; poi deve saper ascoltare i segni della natura, il cui linguaggio decifra con tale precisione da sembrare in grado di dialogare con gli animali e le piante a cui fa riferimento. Ma chiaramente, inevitabilmente, agli occhi di chi osserva la sua opera, da qui alla magia il passo è breve.

Agli occhi di chi lo osservi all'opera, il guaritore di campagna mescola sacro e profano, elementi della religione cristiana, forme di esorcismo, magia e conoscenze erboristiche e tutte queste pratiche lo rendono una figura estremamente controversa e a volte inquietante.

Ma furono anche alcuni “atteggiamenti storici” ad alimentarne la contraddittorietà, contribuendo a dipingerne contorni oscuri e diabolici nell'inconscio collettivo.

Il mondo della cura dei tempi antichi era, più di oggi, collegato al mondo della spiritualità: chi curava era, nella cultura primitiva, in contatto con le superiori regioni degli spiriti, da cui riceveva o dove andava a cercare indicazioni di guarigione. Ad un certo punto la ricerca della cura intraprese una strada diversa e fu allora che nacquero figure di medici che anziché riferirsi al mondo soprannaturale o sottile, facevano esclusivo riferimento al mondo fisico: penso a Ippocrate e alla sua teoria degli umori, ma anche alla più antica medicina ayurvedica o cinese oppure al mondo egizio, per citare le culture più note e a noi più vicine. Con la nascita delle Università occidentali, infine, divenne medico chi seguiva un percorso formativo molto specifico e sempre più esclusivo. Benchè tale formazione non fosse sempre più precisa o realmente più efficace di quella di un guaritore di campagna, per quanto riguarda in particolare il mondo occidentale, l'accademico divenne l'unico depositario del “vero” sapere.

Ma negli antichi testi medici, accanto all'utilizzo officinale di molte piante è indicato spesso anche l'uso simbolico-magico. Inoltre, dal punto di vista tecnico, l'utilizzo delle erbe e piante per la creazione di farmaci non era molto diverso dall'utilizzo per la realizzazione di filtri e pozioni magiche. Scrive a questo proposito Massimo Montanari:


« .. .il confine tra medicina e magia, tra elaborazioni accreditate come scienza e pratiche condannate come superstizione, non era poi così facile da discernere. Gli usi terapeutici raccomandati nei trattati di medicina non erano probabilmente troppo diversi, né dal punto di vista tecnico né da quello dei principì ispiratori, da usi che in altri contesti sociali e ideologici potevano essere bollati come magici. In fondo, i veneficia puniti dai penitenziali ecclesiastici e le ricette proposte dai libri di medicina erano espressione di una cultura affine " (Massimo Montanari, Alimentazione e cultura nel medioevo, Roma-Bari, 1088, p.209)"


Quello che cambia è la finalità: una cosa è la cura, una cosa la malìa. Cambiano gli annessi: nella realizzazione del farmaco, la pianta è utilizzata nel suo stato naturale; nella realizzazione del veleno (termine che deriva da venenum, con evidente collegamento a Venus, dea dell'amore e quindi, con stretta relazione all'incantamento erotico) la pianta è utilizzata sinergicamente con altri “attori” ossia immagini di cera, feticci, parti del corpo umano e di animali, formule, ecc. Le conoscenze sulle proprietà curative e magiche delle erbe derivano dalla cultura ebraica, greca, romana, celtico-germanica e araba ma anche da certa parte della letteratura classica (vedi Circe). Nonostante erbe e piante medicinali fossero presenti nei giardini dei conventi, dove venivano raccolte e trattate secondo precisi rituali proprio come in magia, la cultura altomedievale particolarmente espressa dalla chiesa durante il periodo dell'evangelizzazione dell'Europa germanica, iniziò a contrastare il riferimento a certe conoscenze, condannandole in quanto pratiche magiche pagane e pertanto diaboliche (senza considerare che anche nel mondo pagano era ostacolata e severamente punita l'arte magica, trattata pari ad un omicidio, cfr. la lex cornelia de sicariis et veneficiis, dell'81 a. C). Parallelamente si intensificarono gli interventi di distruzione delle foreste, considerate sedi di idoli pagani, dunque non più solo elementi della natura ma simbolo di idolatria. Questi atteggiamenti, insieme alla più tarda monopolizzazione del sapere da parte delle università, fomenteranno la resistenza a figure mediche non specializzate o non accademiche e strettamente legate al mondo della natura selvaggia, che finiranno inevitabilmente relegate nelle buie cantine della ciarlataneria.

La nuova etica medievale cristiana espressa specialmente nei penitenziali, bollò come immorale certa parte di questa medicina, come i philtra usati a scopo anticoncezionale e i medicamenti per la fecondità o per la sterilità, tutto strettamente collegato al mondo femminile. Siccome tali pratiche colpevoli erano legate alla sfera della salute femminile, e poiché erano le donne in particolare le protagoniste di parte della ritualità di derivazione nordica, celtica o germanica da cui queste pratiche provenivano (si ricordi l'importanza e l'autorità detenuta dalle donne anche in ambito sacro presso queste società), automaticamente nel pensiero comune le donne divennero il bersaglio dei penitenziali. Incmaro di Reims, nel suo testo sul divorzio di Lotario II dalla moglie Teutberga, fa esplicito riferimento all'esistenza di donne che vogliono seminare dissapori e zizzania tra marito e moglie, utilizzando impiastri di cenere di ossa di morti, capelli “et herbis variae”(Incmaro di Reims, De divortio Lotharii regis et Tetbergae reginae). Da queste tre parole, et herbis variae, nasce la “herbaria”: il suo ambito di intervento e d'azione è lo stesso delle antiche maleficae o incantatrici di origine pagana e classica. A questo punto, la sua figura, e di conseguenza quella di tutti gli altri guaritori, è definitivamente delineata in maniera negativa e rimarrà ambigua fino ai giorni nostri.

Incontriamo l'autrice

Autrice di questo articolo è Barbara Coffani, scrittice veronese che recentemente ha pubblicato "La Herbaria", romanzo misterioso ambientato nel territorio di Molina in alta Valpolicella (http://barbaracoffani.wixsite.com/barbara-coffani/barbaracoffani-la-herbaria)

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